L. R. Carrino Esercizi sulla madre
Scritto da: Angelo Di Liberto
L.R. Carrino, Esercizi sulla madre (Perdisa Pop, 2015, € 15, pp. 168). “La mamma morta m’hanno alla porta della stanza mia; Moriva e mi salvava!”. Eudaimon è una parola che in greco vuol dire stare con un demone buono. Una
condizione nella quale l’essere umano, in pace con se stesso, ricerca nel luogo della verità.
Nel regno delle ombre, vacue ed evanescenti parvenze di vita perduta si aggirano a intralciare il cammino.
Luigi Romolo Carrino è nel sentiero pericoloso della verità. Col suo Esercizi sulla madre cristallizza l’istante fino a dilatarlo, costringerlo a espandersi per quarant’anni e a sommare demoni, memorie, mancanze, iniquità.
Giuseppe è Gioia, suo alter ego femminile. Ma è Madre, Figlio, Amante, Marito, Titano. Tutte le declinazioni possibili di una vita mancata e mai conclusa, ritorta sul confine indefinito di una personalità ai limiti dell’abisso. Tutte le identità che ha assunto per sfuggire alla realtà. Come un moderno Norman Bates è custode di una casa di memorie materne.
Aspetta l’Incontro. Prepara l’attesa col sogno, con la visione. La sua personale coscienza del passato si mescola con la menzogna, che gli serve per continuare a vivere. Giuseppe ha otto, sedici, quarantadue anni. Tutti quelli che servono per
attendere Madre seduto sui gradini di casa. Invano. Ha piegato il tempo per raggiungerla, ha cambiato lo spazio per trovarla, si è seduto davanti a un medico per incontrarla. Ora si trova all’interno di un ospedale psichiatrico giudiziario e continua ad aspettare. Guarda le macchie di Rorschach che il dottor Allocca gli sottopone. Vi scorge dieci madri, una per ogni tempo dell’attesa. Una per ciascun demone dell’assenza.
Tutto è pronto per il suo sacrificio. All’interno dell’istituto è stato predisposto un ambiente simile alla casa in cui Giuseppe viveva da bambino. Affinché ricordi, colmi gli spazi bianchi della memoria, curvi ancora una
volta il tempo che lo privò dell’identità, lo arrestò a sedici anni per mezzo dei carabinieri e lo internò nel luogo del dolore. “Ai pazzi come me è concessa una notte all’anno, e un posto all’anno per fare l’esercizio del ricordo senza le medicine che mi fanno dimenticare chi sono, che mi tolgono la dignità di scegliere il male che dice tutta la mia vita, che però mi fa essere stato qualcuno, qualcosa”. Ma accanto alla Madre Parlata, alla Madre Pregata, a quella Dormita e a tutte le altre Madri che sceglierà d’incontrare, Giuseppe conserva il ricordo della Madre Dimenticata. Tutti i demoni che lo accompagnano non saranno sufficienti ad allontanarla, a disperderla nel gorgo della sua esistenza. Perché questa volta Madre è tornata implacabile a ricordargli le sue colpe, a stipulare un patto perenne di sangue col sangue.
“Sono tornata per dirti quello che mi hai fatto…”. Madre è il Demone che lo tiene in vita morto. Madre è l’origine del suo Male. In fila verso l’abisso, i demoni si susseguono, lo rincorrono, lo conducono davanti alla porta della camera da letto.
Oltre quel limite c’è la verità. Ed ecco che improvvisa, una cosa nuova lo avvolge, lo comanda. Gli fa vedere la sua vita intera. “Nessuno sa quel che fa, nessuno sa quel che vuole, nessuno sa quel che sa”, dice Pessoa. Perché dormiamo la Vita, la illudiamo, la tingiamo di colori sgargianti affinché il buio diradi, si costringa nell’andito più nascosto di noi.
Ma è un istante. Sono otto, sedici, quarantadue anni, la vita intera a mentirci, sino a quando non distogliamo gli occhi e incontriamo noi stessi, la nostra coscienza, la nostra origine ancestrale, che è Madre.
Ogni cosa si compie dunque. Perché ogni cosa fatta, anche se male, è ben fatta. Perché lei è la Madre, lei è l’amore.