che ve ne sembra dell’America? /4
united colors
Nella sala sono in minoranza. Sono chiara, chiarissima. Sto alla base della scala di sfumature. Tra me e il nero centrafricano in abiti dorati seduto due poltrone più avanti passano una dozzina di tonalità. Caramello, cannella, ambra, sabbia, cioccolato al latte, caffè, terra bagnata… Mariette Monpierre è la regista del film di questa sera al Lincoln Center di New York: Elza, storia di una ragazza di Guadalupa cresciuta dalla madre a Parigi, che dopo la laurea torna sull’isola dove è nata per ritrovare il padre; lui ha un’altra famiglia e vive una vita ricca, piena di ipocrisie e contraddizioni, a cominciare dal fatto che ha una moglie bianca, proibisce alla figlia di sposare il creolo da cui ha avuto una bambina, e ha per amante una donna nera.
Il film parla di chi è costretto a crescere senza un genitore e ne sente la mancanza. Ma parla anche del senso di superiorità della razza chiara. «In Francia sono più razzisti che in America» dice con naturalezza Mariette: ha un viso bellissimo, dorato, lentiggini, capelli come fusilli, nata a Guadalupa, cresciuta a Parigi. Francia, Italia. Da noi non posso immaginare un pubblico in sala come questo, nemmeno in un festival del cinema africano.
Stamattina al Morningside Park ho visto un uomo bianco chiedere a un bambino nero di riprendergli una palla da baseball e quando il bimbo gliel’ha portata lui lo ha fatto giocare un po’ per ringraziarlo. Sulla metropolitana un ragazzo nero guardava dubbioso le fermate e un coetaneo bianco l’ha spontaneamente aiutato a trovare la strada e poi gli ha detto Belle quelle scarpe, sono dei…? e ha citato una squadra non so se di baseball o di football e si sono messi a parlare di sport per tutto il viaggio. Non dico che qui va tutto bene, ma in questo racconto usare bianco e nero mi è costato uno sforzo. Qui, a NYC, questa differenza davvero non la percepisci, non c’è nel modo in cui le persone si pongono fra loro (c’è nel censo ma quello è un altro discorso). La varietà è tale che dire bianco e nero sarebbe come citare due colori di una scatola di pastelli da 120. Due con altri 118.
Allora mi viene in mente Ellis Island, dove per circa 50 anni ogni giorno sono sbarcati migliaia di immigrati da tutto il mondo: 50 lingue diverse, 12 milioni di persone arrivate tra il 1892 e il 1954, per non contare quelle prima e quelle dopo. Venivano sottoposti a controlli medici in batteria, qualcuno si ritrovava un segno di gesso sui vestiti e veniva messo in quarantena come sospetto, poteva restare giorni all’ospedale (per anni a Ellis Island gli Stati Uniti si sono fatti carico della spesa sanitaria per milioni di immigrati!), qualcuno (il 2 per cento) veniva rimpatriato, ma gli altri entravano e via, a cercare il loro angolo di America. Lo trovavano, perché l’America aveva bisogno di loro quanto loro dell’America. Entrambi lo sapevano. Dai due lati si è dato e si è preso.
All’istinto naturale degli immigrati di riunirsi in comunità per paese d’origine si aggiungeva l’invito a seguire le night school di inglese e di civiltà americana. Allo scoppio della prima guerra mondiale la propoganda chiese agli immigrati di dimostrarsi americani, di arruolarsi, di risparmiare il cibo per i soldati. In cambio partì una campagna per dare loro la cittadinanza, nelle strade fiorivano botteghe in cui scattare la foto per il nuovo documento di cittadino degli Stati Uniti d’America.
Pochi giorni fa, in Texas, ridevo sentendo urlare God bless the United States prima dell’inizio di un rodeo. Invece proprio in quel grido è la forza di questo paese che ha voluto diventare quello che è diventato. Certo è stato facilitato dalla disponibilità naturale di spazio e di risorse, ma lo ha scelto e fortemente voluto e perseguito. Un caso unico al mondo. Un laboratorio sperimentale che sarebbe ora di considerare come tale, a prescindere da giudizi politici o ideologici, concentrandosi sulla peculiarità di quell’intenzione. Perché qui si è capito che in tanti e diversi (diversissimi!) si poteva diventare uniti e forti? Perché nel resto del mondo no?
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Tags: America, cinema, festival del cinema africano, film, Lincoln Center, Mariette Monpierre, New York, Stati Uniti
Cara Francesca, credo proprio che quello che tu noti ora a NYC sarà il futuro dei nostri figli qui in Italia. Li hai mai sentiti discorrere sul colore della pelle dei loro compagni di scuola? Per 3 mesi ho sentito parlare mio figlio Pietro del suo compagno Luca e non capivo chi fosse. Un giorno l’abbiamo incontrato andando a scuola: è cinese, il suo cognome è chiaramente cinese. Ma a mio figlio non era mai venuto in mente di dirmelo per fami capire chi fosse Luca.
E poi, una domanda. In Texas era esattamente come a NY? Tutti gli Stati Uniti sono allo stesso livello di integrazione?
Cara Adele, lo spero tanto! In realtà a me sembra che in Italia siamo lontanissimi da quello che vedo qui. Da noi una persona di colore resta qualcuno di cui “far finta che non ci sia”… Al giornale riceviamo valanghe di lettere rabbiose e razziste. Da noi non ci sono né lo spazio né le risorse degli Stati Uniti, è vero. E l’immigrazione ci travolge senza che esista un progetto per indirizzarla e governarla. Ma soprattutto credo che a noi come popolo manchi un senso di “maternità”, di accoglienza e accudimento dell’altro che invece qui sento fortissimo e si manifesta anche in cose molto piccole, per esempio nel soccorso che viene dato per strada a chiunque abbia una minima difficoltà, dal cieco col bastone al turista con l’aria spaesata: mi sono sentita chiedere un sacco di volte se avevo bisogno di indicazioni, e da tutti, persone dall’aria benestante e persone dall’aria di chi sbarca il lunario a fatica. Sono piccoli segni, è chiaro, ma è davvero evidente che questo popolo ha nel complesso un istinto che definirei materno e che a noi manca del tutto. Se dovessi definirci, mi verrebbe in mente l’immagine di fratelli litigiosi e poco affettuosi.
In Texas la mescolanza è soprattutto con gli ispanici che stanno diventando addirittura una maggioranza. So che sono in corso manovre politiche che destano accese discussioni per modificare la legge elettorale del Texas. In sostanza i bianchi conservatori sanno che fra qualche anno gli ispanici avranno la maggioranza alle elezioni, e benché gli ispanici siano per natura familisti, cattolici e conservatori, votano i democratici da cui hanno avuto sempre sostegno.
Il Texas non è New York, è chiaro. Ma non ho visto alcun istinto a escludere. E da persone di colore che hanno vissuto sia in Francia sia qui ho sentito affermare che l’Europa è molto più razzista degli Stati Uniti.
Leggere le tue riflessioni ha riacceso la voglia di partire per NYC. È una città che ho visitato molto velocemente, se fosse stato un incontro tra persone direi che le ho stretto la mano. Ma in quel contatto ho sentito una forte energia (positiva e negativa). Ho camminato con il naso all’in su come Alice nel paese delle meraviglie, quasi aspettandomi il Bianconiglio dietro l’angolo. Gli Stati Uniti sono un paese pieno di contraddizioni non posso dire di amarli, ma il senso di appartenenza che provano gli americani per il loro paese lo trovo veramente invidiabile. A NYC poi ho provato una sensazione bellissima: ero la benvenuta!