Novembre, tempo di open day:
scappate, genitori, scappate!
scritto da: Francesca Magni
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NOVEMBRE, TEMPO DI OPEN DAY. I genitori si affollano nelle aule magne delle scuole. Capitanato dal/dalla dirigente, il corpo docente è in grande spolvero. Al posto d’onore il prof arguto e il gigione; ove l’età lo consenta, gli allievi migliori si prestano a testimoniare la bontà della scuola, immancabile la “quota DSA”: il/la dislessico/a assicura di trovarsi benissimo.
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Nell’aula magna del liceo classico Parini di Milano per due anni di seguito (per figlio e figlia) abbiamo ascoltato il preside Soddu incantare la platea con la sua oratoria quieta, senza giochi di prestigio, poggiata su quello che mai abbiamo dubitato essere un autentico amore per la lingua e l’etimologia, per il pensiero classico, per l’esercizio delle domande. E poi c’era quella cosa, piccola ma gigantesca, che per due volte ci ha fatto dire sì: il suo liceo, prometteva il dirigente Soddu, avrebbe spostato l’accento dall’insegnamento all’apprendimento. Uno slittamento semantico che vale una rivoluzione. La rivoluzione che aspettiamo.
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Ai miei tempi quando finivi le medie sceglievi classico, scientifico, linguistico, ragioneria, istituto tecnico. Punto. Oggi scegli il piano dell’offerta formativa, il patto di corresponsabilità, gli indirizzi resi possibili dall’autonomia scolastica, le offerte extra per lingue e certificazioni, il teatro, lo sport, scegli l’impostazione didattica dichiarata sul sito della scuola e presentata nello show dell’open day. Scegli quella che ti viene venduta come la filosofia di quella singola scuola.
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Venduta: è il termine preciso. In base a questo commercio di promesse e al marketing che lo sostiene si smuovono masse di famiglie che vivono, nella selezione della scuola dei figli, lo stesso dilemma contemporaneo della scelta dell’operatore telefonico, del fornitore di energia elettrica, della banca, delle polizze assicurative o dei prodotti al supermercato. Famiglie costrette a essere esaminatori informati e responsabili di offerte.
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Ci è dato, oggi rispetto a una volta, di esercitare più consapevolezza? Ci è concessa più trasparenza? Abbiamo a disposizione un’offerta più variegata? Può darsi. Ma dove c’è una promessa, nasce una responsabilità. E se ai miei tempi sceglievo un liceo e come andava andava, oggi no. Oggi sono autorizzata ad andare dal dirigente e a dirgli «Ehi, ma la sua non era la scuola che si preoccupava dell’apprendimento e non si limitava all’insegnamento?». E così un figlio ha lasciato quel liceo dopo due anni di valutazioni che ignoravano le sue caratteristiche specifiche dell’apprendimento; ok non era una mela tonda e perfetta di quelle che vengono esposte agli open day. Ma sua sorella? Lei sembra avere le carte in regola.
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Dei 600 vocaboli di greco dati da imparare a memoria dal suo professore, mia figlia ne sa in velocità l’80%. Un altro 15% lo sa con incertezze e un 5% non l’ha ancora assimilato. Il compito dei vocaboli la terrorizza, la rassicuro dopo averglieli provati TUTTI:
«Li sai, davvero, stai serena».
«Ma quando sono lì a volte non mi vengono», dice lei…
Lo so bene, penso, esiste l’emotività, quella cosa che impieghiamo vite intere per imparare a dominare; ma non glielo dico: l’altro giorno la sua prof di matematica ha fatto sapere alla classe che non sopporta chi usa l’ansia come giustificazione per gli scarsi risultati.
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Il compito dei vocaboli greci va così così: su 20 ne traduce correttamente 12, il voto che prende è 3. Abbandono in pochi minuti l’impresa di individuare quale fosse il criterio di valutazione.
«Toglie un punto per ogni errore», mi spiega mia figlia.
«Ma allora avresti dovuto prendere 2».
«Giusto», fa lei, «quindi mi è andata bene».
«Ma significa che la scala di voti del professore va da -10 a +10», aggiungo perplessa. Ma lei giustamente ha smesso di ascoltarmi, non tutti i nonsense sono divertenti.
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Se mi chiedessero di associare una parola alla scuola come l’ho conosciuta da quando sono genitore, risponderei: LOTTERIA. Per i numeri, tanto per cominciare. Miriadi di voti, una pioggia, decine di compiti scritti la cui media spesso finisce nella casella dell’orale, voti che hanno perso non solo una logica formativa ma persino una logica matematica (in un sistema di valutazione decimale, 12 risposte esatte su 20 fa 6, porca miseria!). Numeri che puoi giusto giocarti al Lotto, e ridere per non piangere.
Lotteria perché nella stessa scuola fai una scuola diversa a seconda della classe in cui finisci.
Lotteria perché i criteri di valutazione sono tanti quante le teste di chi insegna.
Lotteria perché non tutti i professori sanno avere a che fare veramente e proficuamente con i diversi stili di apprendimento.
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E così ti resta un tarlo che scava dentro dal giorno dell’open day: la promessa. Sì ti avevano fatto una promessa. Una certa filosofia di scuola che ti aveva conquistata.
«Mamma, i professori odiano il preside», mi spiega con realismo mia figlia. «Non importa a nessuno cosa pensa lui della scuola, loro sono sicuri di essere bravi così».
Ha centrato il punto, lo stesso dirigente lo scorso anno, interpellato a proposito della prof di latino di nostro figlio, aveva confessato la sua difficoltà ad allineare un corpo docente così vasto e non selezionato da lui su una precisa filosofia di scuola. Quel colloquio mi è tornato in mente qualche giorno fa, ero a una riunione nel liceo paritario che ora mio figlio frequenta: la dirigente ci informava che la docente di filosofia è nuova e che la stanno ancora formando sui metodi della scuola. Mi sono accorta che ascoltavo e sorridevo.
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Asilo, elementari, medie, liceo: sempre scuola pubblica. Volevamo che i nostri figli fossero in classe con il mondo, con la gente vera che vive nel nostro quartiere; volevamo che fossero immersi in una realtà complessa, variegata, anche difficile, ma che stimola l’interesse per la diversità, la capacità di immedesimazione, lo spirito di convivenza. Non volevamo una scuola confessionale – pensiamo che educazione e fede debbano abitare in dialogo, non in subordinazione una all’altra. Non volevamo una scuola inglese per famiglie facoltose, persone che avrebbero rappresentato uno spaccato molto parziale della società in cui viviamo.
Poi un giorno non abbiamo avuto più scelta. E la scuola paritaria (non generalizzo, intendo quella che abbiamo incontrato) si è rivelata più attenta, più ragionevole, più coerente. Più preoccupata dell’apprendimento. Ne siamo felici e anche tristi, come quando non si riesce più a credere in ciò in cui si crede.
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E ora che è novembre, tempo di open day, ai genitori che si affollano nelle aule magne delle scuole, vorrei urlare: disertate, sottraetevi. Come si fa con un cattivo prodotto, con una pubblicità ingannevole, con un marketing menzognero. Non vi dico di fuggire la scuola pubblica, (resta l’ideale in cui voglio tornare a credere), ma di non darsi in pasto al falso rito di trasparenza.
Iscrivete i figli come si faceva una volta, classico, scientifico, linguistico, tecnico… Iscriveteli alla scuola più vicina a casa, o a quella dove vanno i loro amici. Non è vero che una scuola famosa li preparerà meglio: potrebbe semplicemente distruggere la loro immagine di sé, ferirli per sempre, sgretolare il loro senso di equità, piegarli ai piccoli sadismi che fanno pochissimo rumore e tantissimo male.
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Riprendetevi in mano la responsabilità della loro formazione, studiate percorsi creativi e su misura per i loro interessi e talenti. Il mondo, che lo vogliamo o no, ci chiede di essere in prima linea anche dove un tempo era possibile affidarsi. E allora impedite ai circhi di nani e ballerine di sedurvi con promesse vane. Disinvestite dal rito della scelta, non caricate questo passaggio di significati troppo grandi. Solo abbassando le aspettative, spegnendo i fari sulla scuola, liberandoci di essa come status symbol familiare (è questo che sta diventando) la spingeremo forse a rifondarsi davvero e a diventare quello che deve essere: un luogo in cui si impara con entusiasmo.
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Cosa dire? Mi ha tolto le parole di bocca e mi sono venuti i brividi. Bravissima , come sempre !
Buongiorno Francesca,
ci siamo scritte prima e poi conosciute a Modena per la presentazione del tuo libro. Siamo venuti all’incontro con una piccola delegazione di alunni e genitori DSA con il preside della nostra scuola(paritaria)come testimonianza di una classe che ha adottato “il bambino che disegnava le parole” come libro di narrativa in classe e come modo da offrire ai ragazzi per conoscere e condividere il tema dislessia.
Mi aggancio al tema da te proposto in quanto anche noi al 3°anno di medie ci troviamo proprio nel girone dei dispersi tra saloni di orientamento, open day e simu-lezioni. E’ importante che premetta che io e mio marito veniamo da famiglie di insegnanti che tanto hanno amato e ancora amano la scuola, pubblica in particolare. Ed essendo noi una famiglia per provenienza e scelta multiculturale e multi-religiosa mai avremmo pensato di scegliere per nostro figlio una scuola privata e per di piu’ cattolica(non che ci siano molti margini di alternativa in Italia a dir la verità…).Dopo una non edificante esperienza alla primaria pubblica, con l’idea di provare una realtà piu’ piccola, protetta e attenta anche ai bisogni dei ragazzi e alla collaborazione con le famiglie, abbiamo messo da parte i nostri ideali e ragionato solo ed esclusivamente per il bene di nostro figlio.
L’esperienza si sta concludendo e nel complesso si e’ rivelata una giusta scelta per quelle che erano le nostre aspettative, ma ora si ripropone lo spettro di una nuova scelta che ci rimette in campo tutte le nostre ansie vecchie e nuove.
Nonostante le rassicurazioni, come dicevi tu, da parte di presidi e professori che ci parlano della scuola inclusiva, dei docenti preparati in materia etc.. nell’incertezza abbiamo dovuto mettere in campo più piani di azione.
Piano A= scuola pubblica su liceo artistico a indirizzo grafico e se non dovesse farcela, piano B= scuola privata su liceo socio-economico con “teatro” come materia aggiuntiva di studio.
Noi non siamo persone abbienti e pagare per assicurare un percorso scolastico rispettoso della sua particolarità quando tutte le scuole, pubbliche in particolare, dovrebbero porselo come obiettivo prioritario, ci fa veramente molto male. Per i figli si prova a fare tutto, anche i debiti pur di vederli stare bene ma e’ avvilente ridurre la riuscita o meno di una persona nella vita a seconda che sia figlio di persone benestanti, che hanno potuto spendere, e persone meno agiate che dovendo far tornare i conti ogni giorno, la scuola privata o le cure private non se le possono permettere.
Ma volendo chiudere con un po’ di leggerezza, concordo con te che a un certo punto bisogna smettere di pensare che la scelta scolastica determini sempre il successo o meno dei ragazzi o condizione fortemente la loro futura condizione lavorativa.
Il mondo attuale come nell’antichità e’ pieno di persone che hanno fatto giri immensi prima di trovare la loro strada nella vita e che hanno contribuito a cambiare il corso della storia di un paese, di un’epoca, di una civiltà.
Come genitori abbiamo forse bisogno di ritrovare un po’ più di fiducia nei nostri ragazzi e nell’umanità che ci circonda, provare a vedere l’orizzonte come un punto a cui si arriva piu’ con la collaborazione che con la competizione.Provo a chiudere gli occhi e a crederci un po’.
Alessandra
Cara Francesca, sto vivendo la stessa situazione. Purtroppo descrive molto bene la situazione dei licei, almeno a Milano. I miei tre figli, tra cui due dislessici, fanno la scuola pubblica a Milano e mi chiedo quanto reggeremo ancora.
Dico reggeremo, perché trovo che siamo tutti coinvolti in questa follia di continua misurazione, valutazione e standardizzazione dei nostri figli.
Per carità, ci sono ragazzi che rientrano perfettamente in questi schemi e sono anche molto performanti (parola usata da una professoressa).
I miei figli non lo sono, due dislessici e una molto ansiosa. Ma sono intelligenti e curiosi. Il loro mondo è il liceo, gli piace sapere e avere compagni stimolanti, però pagano un prezzo molto alto.
Non abbiamo mai preso in considerazione la scuola privata, ma se dovessi vedere che il peso diventa troppo grosso farò un pensiero. Sarebbe contro ogni mio principio è leggere questo articolo mi toglie speranza.
Mia figlia grande, la mela rotonda ma ansiosa, va in quinta quest’anno e stringerà i denti. Ieri ha pianto tre ore dicendo che era stupida e incapace. È quello che le viene trasmesso a scuola. Io le dico che all’università andrà molto meglio.
Condivido in pieno che i professori non applicano i voti in modo corretto. Da mia figlia c’e stato uno 0,5. I voti andrebbero da 1 a 10. Non c’è lo 0,5 e oltretutto è umiliante.
Per non parlare dei dislessici che secondo la mia esperienza evidentemente non potranno meritare mai più di un 8. Neanche quando fanno tutto giusto.
La professoressa di latino mi ha detto al colloquio che si, ha preso 7, ma ha avuto la verifica semplificata! Aiuto, cosa si può rispondere ad una frase così, soprattutto se non si vogliono fare incrinare per sempre e irrimediabilmente i rapporti con l’insegnante?
E’ difficile ma spero che resisteremo nella scuola pubblica senza troppi danni. Ormai anche io non mi illudo più e cerco solo ad aiutare i miei ragazzi a farcela senza fidarmi troppo delle promesse fatte dai vari presidi e professori agli open day. Ci vuole tanto impegno da parte di noi genitori, troppo!
Un caro saluto,
Barbara
Ps. Sarei curiosa di sapere in quale scuola ha trovato un ambiente migliore. Se un giorno ne dovessi avere bisogno…..
Cara Alessandra, cara Barbara, i vostri racconti confermano che il problema esiste ed è condiviso. Da parte mia, ho deciso che se dovessi decidere di proporre a mia figlia una scuola diversa, o se lei dovesse chiedermi di cambiare, andrò dai presidi e farò domande molto precise: 1) i professori usano tutti gli stessi criteri di valutazione? E se sì, quali? 2) si fanno, come previsto, prove scritte e prove orali? 3) quante verifiche si fanno per ogni materia a quadrimestre? 4) quanti professori della scuola percentualmente appoggiano e interpretano quanto dichiarato negli open day? 5) quanto sanno i professori degli stili di apprendimento? 6) se un alunno non ha nessuna certificazione può comunque usare dizionari e libri digitali ed eventuali altri strumenti cosiddetti compensativi? 7) si usano voti negativi come punizione? 8) con che mezzi i professori comunicano con le famiglie? ecc. Annoterò le risposte su un foglio, chiederò al preside di prendere visione e gli dirò che quello è il nostro patto di corresponsabilità… 🙂